Processioni a Mare
Il mare: tra rischio di morte e fonte di vita.
"Il mare. Bisogna cercare di immaginarlo, di vederlo con gli occhi di un uomo del passato: come un limite, una barriera che si estende fino all’orizzonte, come un’immensità ossessiva, onnipresente, meravigliosa, enigmatica." (Braudel 1996:32)
Il mare, in molte culture, è stato descritto come luogo del caos, del disordine, dell’indifferenziato flusso primordiale. Da Platone a Kant i filosofi hanno preferito la terra. Ancora in epoca moderna le popolazioni europee hanno una profonda paura del mare. Bisogna, forse, mettere tra parentesi le complesse simbologie e metafore del mare e ricordare come la grande distesa d’acqua, più assente che presente in una storia di lunga durata, abbia segnato la vita delle popolazioni di Calabria. La storia dell’acqua deve partire ancora una volta dalla geografia. Vi è un carattere geografico naturale che ha ulteriormente segnato la vita e le culture della regione nel lungo periodo. E ancora l’acqua, osservata nel corso dei secoli, rappresenta un elemento di forte ambivalenza. La regione si presenta con ben 780 km. di costa che rappresentano circa il 19% del perimetro costiero dell’intera penisola italiana. Nello stesso tempo il 42% della regione è costituito da montagne, il 49% da colline e soltanto il 9% è pianeggiante. Catene montuose (da Nord a Sud la Sila, le Serre, l’Aspromonte) ed altpiani collegano ( o separano) i due versanti di una penisola lunga e stretta, la cui larghezza media è di appena 60 chilometri (ma l’istmo di Marcellinara tra il golfo di Squillace e quello di Sant’Eufemia è di 30 chilometri) e infatti sono non poche le colline da dove si scorgono i due mari.
Terra con un lunghissimo sviluppo costiero e, nello stesso tempo, terra rivolta verso l’interno: questa ambivalenza naturale della Calabria, che viene diversamente risolta a favore dell’uno o dell’altro “luogo” nel corso del tempo, è emblematica, quando non direttamente responsabile, dell’ambivalenza dell’identità delle popolazioni. Nel corso dei secoli le popolazioni che hanno abitato la regione si sono distribuite in maniera diversa sul territorio. All’interno vivono già in epoca preistorica popolazioni con una civiltà molto eleborata e che avranno contatto con i coloni greci che stabiliscono le loro città lungo le coste e in prossimità di significativi corsi di acqua tra il VII e il IV secolo a. C. Nel IV secolo i Bruzi, che hanno i loro insediamenti all’interno, contrastano le città magno greche, con le quali però mantengono rapporti e stabiliscono scambi di vario genere. Durante il periodo romano le antiche poleis si riducono a piccoli municipia, si afferma il latifondo, cominciano disboscamenti che provocano la discesa incottrollata delle acque e l’affermarsi della malaria. Dal VI secolo d. C. la Calabria è parte dell’impero bizantino: si affermano all’interno la lingua e la cultura italo-greca che troveremo vive ancora nel XV secolo e in alcune zone ancora nel XVII. La vita delle popolazioni si svolge all’interno e in montagna anche per ragioni economiche, produttive, culturali, che affondano la loro origine nella preistoria. Il mare è ormai diventato sempre più lontano: luogo della malaria e delle invasioni. Soltanto in epoca moderna si comincia a invertire questa tendenza e dalla seconda metà del XVII secolo le popolazioni dell’interno scendono lungo le marine per coltivare e abitare zone prima malariche. La fondazione e la sacralizzazione di nuovi luoghi avviene attraverso culti che rivelano l’esigenza di un rapporto col mare. I culti e le feste che si affermano a partire da quel periodo narrano la costruzione di nuovi luoghi dove si affermano anche attività legate alla pesca e ai commerci via mare. Al rinvenimento leggendario di una statua o di un quadro della Madonna - un motivo già presente in epoca medievale e risalente al periodo inconoclasta e infatti così arriva la Madonna di Romania a Tropea nell’VIII secolo - viene ricondotta l’orogine del culto e talvolta amche la nascita della comunità. E’ la Madonna a scegliere e ad indicare il luogo di fondazione di una chiesa o del luogo del culto. Numerosi riti che oggi si svolgono nella regione celebrano un evento mitico che costituisce la fondazione o la rifondazione del luogo.
Il culto di Maria SS. di Porto Salvo a Melito, ad esempio, si afferma progressivamente nel corso del XVII secolo quando le popolazioni di Pentedattilo e di altri centri interni dell’estrema punta della Calabria scendono in prossimità delle coste per dissodare e mettere a coltura luoghi quasi del tutto disabitati o, dove esisteva, soltanto qualche isolato e precario rifugio di pescatori (Teti 2000a). Il culto di Maria di Porto Salvo si afferma a partire da quel periodo ance a Bova Marina, Cannitello, Gallico Marina, Gioia Tauro Marina, Bagnara, Marinella, Parghelia, Porto Salvo di Vibo Valentia, Belvedere Marittimo, Catanzaro Lido, Soverato, Siderno. Il culto dell’Immacolata (la Calabria ha ben 13 casi di patronato mariano con tale denominazione sui 16 presenti nell’interro Meridione) si afferma a Nicotera (anche qui vi è un mito di fondazione che narra un arrivo dal mare della statua) alla fine del Settecento, quando la cittadina si avvia a diventare un importante centro di attività legate alla pesca. A Taureana di Palmi viene venerata la Madonna d’Altomare; a Vibo Marina la Madonna di Pompei; a Isola Capo Rizzuto la Madonna Greca, a Strongoli la Madonna di Vergadoro; a Cirò Marina e a Torre Melissa la Madonna del Carmelo; a Crotone la Madonna di Capocolonna, a Diamante la Madonna Addolorata. A volte si tende a stabilire una continuità tra queste forme di culto mariano e culti sorti nei primi secoli del cristianesimo e spesso ci si spinge più indietro, fino alla presenza delle divinità magno grece e alla Grande madre Mediterranea. Anche in questo caso bisogna essere molto cauti nello stabilire continuità con un passato lontano: in realtà molti culti mariani nascono a seguito delle nuove indicazioni ecclesiastiche e concezioni religiose che si affermano dopo il Concilio di Trento e in epoca moderna. Anche il culto di S. Rocco, uno dei santi più venerati nella regione, si diffonde in numerosi centri della costa o in prossimità del mare (Scilla, Gioisa Ionica, Trebisacce, Cariati Marina).
La sacralità e la protezione di nuovi insediamenti sul mare è affidata anche a santi di antica venerazione in ambito locale e meridionale, come S. Benedetto a Cetraro e San Cataldo a Cirò Marina e a Cariati Marina. Il più importante santo meridionale di epoca moderna, S. Francesco da Paola, ha come specializzazione quella di proteggere l’attività dei marinai e dei pescatori. Il santo compie il miracolo di attraversare con un mantello lo stretto di Messina e afferma un diverso rapporto con il mare. A metà Ottocento Padula ricorda come il protettore dei pescatori e dei marinai di Paola e dei paesi del tirreno e dello Ionio fosse S. Francesco (Padula 1977: 211).
Nei culti, nei riti, nelle processioni che si affermano nei nuovi centri costieri resta stretto il riferimento alla cultura agro-pastorale, sono forti i legami con l’universo di provenienza e con gli antichi luoghi. L’immersione nelle acque del mare di molte statue di santi avviene con l’intento di far cadere la pioggia e di garantire la produzione agricola. Del resto ancora nella seconda metà dell’Ottocento il mare per le popolazioni dell’interno è luogo della lontanza. La tradizione orale ricorda la paura di morire durante la traversata su un nero legno e di non trovare sepoltura, e di vagare quindi come anime inquiete. Soltano in pochi centri e in poche occasioni il mare diventava una risorsa, fonte di vita, anche se a costo di duri sacrifici. A Tropea ancora all’inizio degli anni ottanta i pescatori portavano in barca del pane, che avrebbero mangiato soltanto in casa di pesca abbondante; in caso contrario avrebbero riportato il pane a casa per suddividerlo con la famiglia. Il pesce non rientrava nella quotidianità alimentare delle classi povere e nemmeno dei pescatori (Teti 2000c).
La pesca era possibile grazie a complesse elaborazioni culturali, a tecniche realistiche e simboliche, a saperi sperimentati nel corso dei secoli. Essere bravi pescatori non significava soltanto sapere condurre una barca, preparare e buttare le reti, avere forza, tenacia, resistenza: bisognava anche prevedere le condizioni atmosferiche, affrontare il cattivo tempo e le tempeste improvvise. Nelle culture marinare (come in quelle agro-pastorali) le iniziative realistiche sono accompagnate da cautele di ordine simbolico in un universo dominato da precarietà e insicurezza.
Esistono indicazioni per la previsione metereologica; preghiere con cui si invoca la protezione di Dio, della Vergine e dei Santi; formule, scongiuri, parole magiche, gesti per fare scomparire le trombe marine, per allontanare o domare le tempeste, le nuvole, i lampi, i tuoni e i fulmini che possono essere scatenati dai diavoli (Lombardi Satriani, Meligrana 1982: 235-246). Particolare paura suscitava, per la sua forza distruttrice, la tromba marina, conosciuta a Tropea come cud’arrattu (per la somiglianza nella parte terminale alla coda del topo). L’impossibilità di fronteggiarla realisticamente, ha spinto i pescatori ad eleborare schemi simobolici, formule e gesti rituali. A Tropea essi la tagliavano, ossia la distruggevano soltanto quando era dannosa, recitando una formula speciale appresa in chiesa notte di Natale, nel momento in cui il sacerdote consacrava l’ostia. Quando i pescatori effettuavano sulla barca il taglio della tromba, imponevano ai giovani di rivolgere lo sguardo altrove e di collaborare soltanto alla recita del credo e con il segno della croce. Anche l’acqua del mare si presentava in tutta la sua ambivalenza. Il regno dei morti poteva invadere lo spazio della vita dei pescatori, minacciandone l’equilibrio, come avveniva in tutto l’orizzonte folklorico tradizionale. Il mare poteva essere luogo di presenze minacciose e i defunti potevano incarnarsi anche in animali marini (cernie, delfini). La cultura marinara articola l’assenza e riempie il vuoto che ne minaccia l’esistenza. A Tropea erano previste di propiziazione basate sul sacrificio animale e sullo spargimento di sangue. E, infatti, se per il giorno di San Pasquale (17 maggio) le tonnare non “avevano fatto sangue”, se non era avvenuta alcuna mattanza, i pescatori uccidevano un agnello e buttavano il suo sangue nella camera della morte, quale augurio di una prossima e abbondante uccisione di tonni. Tale rito riafferma il potere fondante del sangue, la sua centralità nelle concezioni folkloriche tradizionali meridionali e di altre aree del Mediterraneo. A Pizzo fino a qualche anno addietro, quando era in funzione la tonnara, il 13 giugno giorno di S. Antonio, i marinai portavano su una barca un agnello, lo deponevano sul bordo della barca, divenuta ara sacrificale, lo sgozzavano e facevano defluire il sangue sul mare. Ancora a Pizzo il primo tonno veniva offerto a S. Francesco di Paola come a sacralizzare, attraverso la primizia e il suo valore genetico, la serie e a propiziarne l’abbondanza (ibid. : 244).
Il territorio calabrese appare segnato oggi da nuovi punti, da linee orizzontali e verticali che modificano la tradizionale organizzazione dello spazio, gli antichi legami e collegamenti, le tradizionali forme di percezione dello spazio. Le numerose processioni a mare diventano momento di aggregazione e di riconoscimento per persone che provengono da diverse località dell’interno o da altri centri costieri. Attraverso di esse si realizza un luogo di riconoscimento tra persone che hanno un analogo sostrato culturale, ma tradizioni differenti. In un universo sparso, frammentato, senza centro, gli abitanti provenienti spesso da diversi paesi, gli emigrati e i rimasti, sono impegnati in operazioni di costruzione d’identità, hanno bisogno di fare “mente locale”. Gli abitanti dei centri costieri sono impegnati in un’opera di ritrovamento e ricostruzione di un nuovo mondo, magari nello stesso luogo in cui sono nati, magari a pochi chilometri di distanza. Le processioni segnano l’arrivo delle popolazioni lungo le coste, dopo lunghi secoli di lontananza. Collegano vecchi e nuovi abitati, antiche e recenti tradizioni, paesi montani, collinari e località costiere, economie e culture differenti. Anche la nuova festa rivela ansie, insoddisfazioni, bisogni, delusioni delle popolazioni. Raccontano il bisogno di riconoscimento di luogo, di un nuovo appaesamento, dopo la perdita dell’antico paese, la frantumazione e la dissoluzione dell’antico universo (Teti 1999).
La discesa lungo le coste non significa tuttavia conquista del mare e nemmeno affermazione di un diverso e concreto legame tra interno e marine. Se prima le popolazioni avevano un difficoltoso rapporto con il mare, adesso gli abitanti dei centri costieri hanno un difficoltoso con l’interno. L’abbandono delle zone interne è causa anche di nuove forme di devastazioni delle acque che scendono incustodite a valle e provocano disatri e rovine come nelle recenti alluvioni di Crotone e di Soverato. E i tanti paesi sorti luongo le coste, spesso dei non luoghi postmoderni, d’estate hanno difficoltà con l’acqua potabile. Le tante dighe progettate e quasi mai ultimate, a dispetto dei miliardi sperperati, non hanno risolto il problema acqua. All’abbandono delle zone interne, con conseguente perdita di saperi locali e di tecniche tradizionali di controllo e di custodia delle acque, alla scarsezza di acqua potabile lungo le coste, ma ormai anche nei paesi interni, all’occultamento del mare da parte delle postmoderne palafitte di cemento, bisogna aggiungere le desertificazioni che si vanno affermando per molteplici ragioni planetarie e locali. L’acqua, nella terra delle acque, resta, diversamente dal passato, un problema, spesso un’emergenza.
[ link - testo estratto da un interessantissimo saggio pubblicato sul sito web dell'antropologo Vito Teti]
Il mare, in molte culture, è stato descritto come luogo del caos, del disordine, dell’indifferenziato flusso primordiale. Da Platone a Kant i filosofi hanno preferito la terra. Ancora in epoca moderna le popolazioni europee hanno una profonda paura del mare. Bisogna, forse, mettere tra parentesi le complesse simbologie e metafore del mare e ricordare come la grande distesa d’acqua, più assente che presente in una storia di lunga durata, abbia segnato la vita delle popolazioni di Calabria. La storia dell’acqua deve partire ancora una volta dalla geografia. Vi è un carattere geografico naturale che ha ulteriormente segnato la vita e le culture della regione nel lungo periodo. E ancora l’acqua, osservata nel corso dei secoli, rappresenta un elemento di forte ambivalenza. La regione si presenta con ben 780 km. di costa che rappresentano circa il 19% del perimetro costiero dell’intera penisola italiana. Nello stesso tempo il 42% della regione è costituito da montagne, il 49% da colline e soltanto il 9% è pianeggiante. Catene montuose (da Nord a Sud la Sila, le Serre, l’Aspromonte) ed altpiani collegano ( o separano) i due versanti di una penisola lunga e stretta, la cui larghezza media è di appena 60 chilometri (ma l’istmo di Marcellinara tra il golfo di Squillace e quello di Sant’Eufemia è di 30 chilometri) e infatti sono non poche le colline da dove si scorgono i due mari.
Terra con un lunghissimo sviluppo costiero e, nello stesso tempo, terra rivolta verso l’interno: questa ambivalenza naturale della Calabria, che viene diversamente risolta a favore dell’uno o dell’altro “luogo” nel corso del tempo, è emblematica, quando non direttamente responsabile, dell’ambivalenza dell’identità delle popolazioni. Nel corso dei secoli le popolazioni che hanno abitato la regione si sono distribuite in maniera diversa sul territorio. All’interno vivono già in epoca preistorica popolazioni con una civiltà molto eleborata e che avranno contatto con i coloni greci che stabiliscono le loro città lungo le coste e in prossimità di significativi corsi di acqua tra il VII e il IV secolo a. C. Nel IV secolo i Bruzi, che hanno i loro insediamenti all’interno, contrastano le città magno greche, con le quali però mantengono rapporti e stabiliscono scambi di vario genere. Durante il periodo romano le antiche poleis si riducono a piccoli municipia, si afferma il latifondo, cominciano disboscamenti che provocano la discesa incottrollata delle acque e l’affermarsi della malaria. Dal VI secolo d. C. la Calabria è parte dell’impero bizantino: si affermano all’interno la lingua e la cultura italo-greca che troveremo vive ancora nel XV secolo e in alcune zone ancora nel XVII. La vita delle popolazioni si svolge all’interno e in montagna anche per ragioni economiche, produttive, culturali, che affondano la loro origine nella preistoria. Il mare è ormai diventato sempre più lontano: luogo della malaria e delle invasioni. Soltanto in epoca moderna si comincia a invertire questa tendenza e dalla seconda metà del XVII secolo le popolazioni dell’interno scendono lungo le marine per coltivare e abitare zone prima malariche. La fondazione e la sacralizzazione di nuovi luoghi avviene attraverso culti che rivelano l’esigenza di un rapporto col mare. I culti e le feste che si affermano a partire da quel periodo narrano la costruzione di nuovi luoghi dove si affermano anche attività legate alla pesca e ai commerci via mare. Al rinvenimento leggendario di una statua o di un quadro della Madonna - un motivo già presente in epoca medievale e risalente al periodo inconoclasta e infatti così arriva la Madonna di Romania a Tropea nell’VIII secolo - viene ricondotta l’orogine del culto e talvolta amche la nascita della comunità. E’ la Madonna a scegliere e ad indicare il luogo di fondazione di una chiesa o del luogo del culto. Numerosi riti che oggi si svolgono nella regione celebrano un evento mitico che costituisce la fondazione o la rifondazione del luogo.
Il culto di Maria SS. di Porto Salvo a Melito, ad esempio, si afferma progressivamente nel corso del XVII secolo quando le popolazioni di Pentedattilo e di altri centri interni dell’estrema punta della Calabria scendono in prossimità delle coste per dissodare e mettere a coltura luoghi quasi del tutto disabitati o, dove esisteva, soltanto qualche isolato e precario rifugio di pescatori (Teti 2000a). Il culto di Maria di Porto Salvo si afferma a partire da quel periodo ance a Bova Marina, Cannitello, Gallico Marina, Gioia Tauro Marina, Bagnara, Marinella, Parghelia, Porto Salvo di Vibo Valentia, Belvedere Marittimo, Catanzaro Lido, Soverato, Siderno. Il culto dell’Immacolata (la Calabria ha ben 13 casi di patronato mariano con tale denominazione sui 16 presenti nell’interro Meridione) si afferma a Nicotera (anche qui vi è un mito di fondazione che narra un arrivo dal mare della statua) alla fine del Settecento, quando la cittadina si avvia a diventare un importante centro di attività legate alla pesca. A Taureana di Palmi viene venerata la Madonna d’Altomare; a Vibo Marina la Madonna di Pompei; a Isola Capo Rizzuto la Madonna Greca, a Strongoli la Madonna di Vergadoro; a Cirò Marina e a Torre Melissa la Madonna del Carmelo; a Crotone la Madonna di Capocolonna, a Diamante la Madonna Addolorata. A volte si tende a stabilire una continuità tra queste forme di culto mariano e culti sorti nei primi secoli del cristianesimo e spesso ci si spinge più indietro, fino alla presenza delle divinità magno grece e alla Grande madre Mediterranea. Anche in questo caso bisogna essere molto cauti nello stabilire continuità con un passato lontano: in realtà molti culti mariani nascono a seguito delle nuove indicazioni ecclesiastiche e concezioni religiose che si affermano dopo il Concilio di Trento e in epoca moderna. Anche il culto di S. Rocco, uno dei santi più venerati nella regione, si diffonde in numerosi centri della costa o in prossimità del mare (Scilla, Gioisa Ionica, Trebisacce, Cariati Marina).
La sacralità e la protezione di nuovi insediamenti sul mare è affidata anche a santi di antica venerazione in ambito locale e meridionale, come S. Benedetto a Cetraro e San Cataldo a Cirò Marina e a Cariati Marina. Il più importante santo meridionale di epoca moderna, S. Francesco da Paola, ha come specializzazione quella di proteggere l’attività dei marinai e dei pescatori. Il santo compie il miracolo di attraversare con un mantello lo stretto di Messina e afferma un diverso rapporto con il mare. A metà Ottocento Padula ricorda come il protettore dei pescatori e dei marinai di Paola e dei paesi del tirreno e dello Ionio fosse S. Francesco (Padula 1977: 211).
Nei culti, nei riti, nelle processioni che si affermano nei nuovi centri costieri resta stretto il riferimento alla cultura agro-pastorale, sono forti i legami con l’universo di provenienza e con gli antichi luoghi. L’immersione nelle acque del mare di molte statue di santi avviene con l’intento di far cadere la pioggia e di garantire la produzione agricola. Del resto ancora nella seconda metà dell’Ottocento il mare per le popolazioni dell’interno è luogo della lontanza. La tradizione orale ricorda la paura di morire durante la traversata su un nero legno e di non trovare sepoltura, e di vagare quindi come anime inquiete. Soltano in pochi centri e in poche occasioni il mare diventava una risorsa, fonte di vita, anche se a costo di duri sacrifici. A Tropea ancora all’inizio degli anni ottanta i pescatori portavano in barca del pane, che avrebbero mangiato soltanto in casa di pesca abbondante; in caso contrario avrebbero riportato il pane a casa per suddividerlo con la famiglia. Il pesce non rientrava nella quotidianità alimentare delle classi povere e nemmeno dei pescatori (Teti 2000c).
La pesca era possibile grazie a complesse elaborazioni culturali, a tecniche realistiche e simboliche, a saperi sperimentati nel corso dei secoli. Essere bravi pescatori non significava soltanto sapere condurre una barca, preparare e buttare le reti, avere forza, tenacia, resistenza: bisognava anche prevedere le condizioni atmosferiche, affrontare il cattivo tempo e le tempeste improvvise. Nelle culture marinare (come in quelle agro-pastorali) le iniziative realistiche sono accompagnate da cautele di ordine simbolico in un universo dominato da precarietà e insicurezza.
Esistono indicazioni per la previsione metereologica; preghiere con cui si invoca la protezione di Dio, della Vergine e dei Santi; formule, scongiuri, parole magiche, gesti per fare scomparire le trombe marine, per allontanare o domare le tempeste, le nuvole, i lampi, i tuoni e i fulmini che possono essere scatenati dai diavoli (Lombardi Satriani, Meligrana 1982: 235-246). Particolare paura suscitava, per la sua forza distruttrice, la tromba marina, conosciuta a Tropea come cud’arrattu (per la somiglianza nella parte terminale alla coda del topo). L’impossibilità di fronteggiarla realisticamente, ha spinto i pescatori ad eleborare schemi simobolici, formule e gesti rituali. A Tropea essi la tagliavano, ossia la distruggevano soltanto quando era dannosa, recitando una formula speciale appresa in chiesa notte di Natale, nel momento in cui il sacerdote consacrava l’ostia. Quando i pescatori effettuavano sulla barca il taglio della tromba, imponevano ai giovani di rivolgere lo sguardo altrove e di collaborare soltanto alla recita del credo e con il segno della croce. Anche l’acqua del mare si presentava in tutta la sua ambivalenza. Il regno dei morti poteva invadere lo spazio della vita dei pescatori, minacciandone l’equilibrio, come avveniva in tutto l’orizzonte folklorico tradizionale. Il mare poteva essere luogo di presenze minacciose e i defunti potevano incarnarsi anche in animali marini (cernie, delfini). La cultura marinara articola l’assenza e riempie il vuoto che ne minaccia l’esistenza. A Tropea erano previste di propiziazione basate sul sacrificio animale e sullo spargimento di sangue. E, infatti, se per il giorno di San Pasquale (17 maggio) le tonnare non “avevano fatto sangue”, se non era avvenuta alcuna mattanza, i pescatori uccidevano un agnello e buttavano il suo sangue nella camera della morte, quale augurio di una prossima e abbondante uccisione di tonni. Tale rito riafferma il potere fondante del sangue, la sua centralità nelle concezioni folkloriche tradizionali meridionali e di altre aree del Mediterraneo. A Pizzo fino a qualche anno addietro, quando era in funzione la tonnara, il 13 giugno giorno di S. Antonio, i marinai portavano su una barca un agnello, lo deponevano sul bordo della barca, divenuta ara sacrificale, lo sgozzavano e facevano defluire il sangue sul mare. Ancora a Pizzo il primo tonno veniva offerto a S. Francesco di Paola come a sacralizzare, attraverso la primizia e il suo valore genetico, la serie e a propiziarne l’abbondanza (ibid. : 244).
Il territorio calabrese appare segnato oggi da nuovi punti, da linee orizzontali e verticali che modificano la tradizionale organizzazione dello spazio, gli antichi legami e collegamenti, le tradizionali forme di percezione dello spazio. Le numerose processioni a mare diventano momento di aggregazione e di riconoscimento per persone che provengono da diverse località dell’interno o da altri centri costieri. Attraverso di esse si realizza un luogo di riconoscimento tra persone che hanno un analogo sostrato culturale, ma tradizioni differenti. In un universo sparso, frammentato, senza centro, gli abitanti provenienti spesso da diversi paesi, gli emigrati e i rimasti, sono impegnati in operazioni di costruzione d’identità, hanno bisogno di fare “mente locale”. Gli abitanti dei centri costieri sono impegnati in un’opera di ritrovamento e ricostruzione di un nuovo mondo, magari nello stesso luogo in cui sono nati, magari a pochi chilometri di distanza. Le processioni segnano l’arrivo delle popolazioni lungo le coste, dopo lunghi secoli di lontananza. Collegano vecchi e nuovi abitati, antiche e recenti tradizioni, paesi montani, collinari e località costiere, economie e culture differenti. Anche la nuova festa rivela ansie, insoddisfazioni, bisogni, delusioni delle popolazioni. Raccontano il bisogno di riconoscimento di luogo, di un nuovo appaesamento, dopo la perdita dell’antico paese, la frantumazione e la dissoluzione dell’antico universo (Teti 1999).
La discesa lungo le coste non significa tuttavia conquista del mare e nemmeno affermazione di un diverso e concreto legame tra interno e marine. Se prima le popolazioni avevano un difficoltoso rapporto con il mare, adesso gli abitanti dei centri costieri hanno un difficoltoso con l’interno. L’abbandono delle zone interne è causa anche di nuove forme di devastazioni delle acque che scendono incustodite a valle e provocano disatri e rovine come nelle recenti alluvioni di Crotone e di Soverato. E i tanti paesi sorti luongo le coste, spesso dei non luoghi postmoderni, d’estate hanno difficoltà con l’acqua potabile. Le tante dighe progettate e quasi mai ultimate, a dispetto dei miliardi sperperati, non hanno risolto il problema acqua. All’abbandono delle zone interne, con conseguente perdita di saperi locali e di tecniche tradizionali di controllo e di custodia delle acque, alla scarsezza di acqua potabile lungo le coste, ma ormai anche nei paesi interni, all’occultamento del mare da parte delle postmoderne palafitte di cemento, bisogna aggiungere le desertificazioni che si vanno affermando per molteplici ragioni planetarie e locali. L’acqua, nella terra delle acque, resta, diversamente dal passato, un problema, spesso un’emergenza.
[ link - testo estratto da un interessantissimo saggio pubblicato sul sito web dell'antropologo Vito Teti]